Marco IacoboniI neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altriBollati Boringhieri, Torino 2008 |
1. Com’era prevedibile, la scoperta dei neuroni specchio si sta configurando, nell’ambito delle neuroscienze, come un evento epocale. Il numero dei laboratori e dei ricercatori che, in tutto il mondo, stanno tentando di verificarla, approfondirla, integrarla con i dati già acquisiti sul cervello, cresce di continuo, come pure il numero degli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche. Il significato della scoperta è ormai noto al grande pubblico e, ovviamente, agli esperti di scienze umane e sociali (filosofi, psicologi, pedagogisti, ecc.) che hanno immediatamente capito di dover fare i conti con essa. Purtroppo il rischio della diffusione della scoperta è, come sempre, la semplificazione o l'arbitrio interpretativo. Una grande scoperta scientifica obbliga a ristrutturare tutto il campo cui essa si estende. Il campo in questione è enorme, spaziando, infatti, dall'evoluzionismo alla neurobiologia, dalla psicologia evolutiva alla struttura della personalità umana, dalla sociologia alla politica. Occorrerà tempo per giungere ad una valutazione adeguata della scoperta dei neuroni specchio. Il libro di M. Iacoboni, che dirige a Los Angeles il Laboratorio di stimolazione magnetica intracranica (uno dei più avanzati strumenti di indagine neuroradiologica) e ha collaborato attivamente in questi anni con l’équipe di Rizzolati, non è solo un aggiornamento rispetto a So quel che fai, che ho già recensito. Esso dà la misura del fervore delle ricerche sui neuroni specchio, ma entra anche nel merito dei complessi problemi cui ho fatto cenno. Scritto in un linguaggio inappuntabilmente scientifico e, al tempo stesso accattivante, il saggio, di fatto, è ricchissimo di dati sperimentali, di riflessioni e di estrapolazioni. E’ normale che quando la scienza varca una nuova frontiera, i ricercatori sondino il territorio che si apre davanti a loro per verificarne l’estensione e, oserei dire, l’intensione. L’entusiasmo della ricerca comporta sicuramente il rischio di qualche ipotesi azzardata e di qualche estrapolazione impropria. Gli scienziati non hanno paura, però, perché sanno che le loro ipotesi e le estrapolazioni saranno poi passate al severo vaglio della verifica e della critica. La portata della scoperta dei neuroni specchio è l'ouverture del saggio: "Per secoli i filosofi si sono scervellati sulla capacità umana di capirsi reciprocamente. Uno sconcerto più che comprensibile, il loro, non avendo di fatto dati scientifici a disposizione. Negli ultimi centocinquanta anni, psicologi, scienziati cognitivi e neuroscienziati ne hanno avuti abbastanza, di dati scientifici su cui lavorare (e negli ultimi cinquant'anni, moltissimi), eppure per lungo tempo ancora hanno continuato a scervellarsi. Nessuno era in grado di fornire delle spiegazioni soddisfacenti su cos'è che ci permette di capire quello che gli altri fanno, pensano e provano. Oggi siamo in grado di fornirle, queste spiegazioni: la nostra capacità penetrante di capire gli altri è dovuta a cellule cerebrali chiamate neuroni specchio. Queste sono le cellule che creano i piccoli miracoli della nostra quotidianità, che sono alla base del modo in cui governiamo le nostre vite, che ci legano gli uni agli altri, sul piano mentale e su quello emotivo..." (pp. 11-12) "Quando vediamo qualcun altro che soffre o sente dolore, i neuroni specchio ci aiutano a leggere la sua espressione facciale e a farci provare la sofferenza o il dolore di quell'altra persona. Simili momenti, come argomenterò nel libro, sono la base fondante dell'empatia, e probabilmente anche del senso morale, un senso morale profondamente radicato nella nostra biologia..." (p. 12) "Senza dubbio i neuroni specchio forniscono, per la prima volta nella storia, una spiegazione neurofisiologica plausibile per forme complesse di cognizione e di interazione sociale. Nell'aiutarci a riconoscere le azioni delle altre persone, i neuroni specchio ci aiutano anche a riconoscere e comprendere le ragioni più profonde che stanno dietro a quelle stesse azioni, le intenzioni degli altri individui. Lo studio empirico dell'intenzione è sempre stato considerato pressoché impossibile, in quanto le intenzioni erano ritenute troppo «mentali» per essere studiate con strumenti empirici. In che modo, poi, sappiamo che gli altri hanno degli stati mentali simili ai nostri? Per secoli i filosofi si sono arrovellati sul cosiddetto «problema delle altre menti», compiendo scarsi progressi. Ora hanno a loro disposizione dei dati scientifici reali su cui lavorare. La ricerca sui neuroni specchio offre loro, e a chiunque sia interessato a come ci si capisce reciprocamente, un considerevole alimento per la riflessione..." (p. 13) "Solide prove empiriche indicano che il nostro cervello è in grado di rispecchiare gli aspetti più profondi della mente degli altri (e l'intenzione è certamente uno di tali aspetti) al sottile livello di una singola cellula cerebrale. Ciò è oltremodo notevole, e altrettanto notevole è la spontaneità di questa simulazione: non abbiamo bisogno di trarre inferenze complesse né di elaborare complicati algoritmi. Semplicemente, usiamo i neuroni specchio." (p. 14) La scoperta dei neuroni specchio, insomma, prova in maniera indubbia che si dà un tessuto di intersoggettività precognitiva e preriflessiva che consente agli esseri umani di comprendersi e di identificarsi reciprocamente; un canale di comunicazione intuitivo e immediato, di tipo empatico, che sembra attivo soprattutto in rapporto allo stato di sofferenza dell'altro. E' evidente che essa azzera d'emblée il dibattito tra intuizionisti e cognitivisti sull'empatia, comunque essa sia intesa. I primi hanno semplicemente ragione: senza neuroni specchio il mondo interiore degli altri sarebbe misterioso e imperscrutabile. Introspezione e cognizione possono indubbiamente affinare la capacità empatica, ma non la producono. La presenza nel cervello umano dei neuroni specchio, dunque, ha un immediato rilievo per la concezione della natura umana e per le origini stesse della specie. Essa, infatti, fa della socialità una dimensione primaria, in difetto della quale l'io non assumerebbe consapevolezza di sé, e porta a pensare che il legame empatico tra esseri originariamente sprovveduti e consapevoli della loro comune vulnerabilità e precarietà sia stato lo "strumento" principale di sopravvivenza e di adattamento attraverso la solidarietà e la cooperazione all'interno del gruppo (e presumibilmente, alle origini, anche tra gruppi limitrofi). Questo è il contenuto informativo della scoperta che più prontamente si è diffuso presso l'opinione pubblica e gli studiosi di scienze umane. E' superfluo che faccia presente l'entusiasmo intellettuale con cui l'ho accolta, avendo lavorato per oltre venti anni a costruire una teoria della natura umana e un modello psicopatologico che la implicava, facendo riferimento ad un bisogno si appartenenza e di integrazione sociale primario, geneticamente determinato, e all'empatia, come emozione intuitiva correlata a tale bisogno, universale ma più spiccata in alcuni soggetti (gli introversi) che spesso pagano questa ricchezza in termini di disagio. L'entusiasmo, però, non è mai stato tale da accecarmi teoricamente. Per quanto si possa valutare il legame sociale, rimane il fatto che esso, nonché un fattore di umanizzazione, promuove l'omologazione culturale, vale a dire la trasmissione e l'interiorizzazione di codici normativi che, nel loro insieme, determinano, all'interno di ogni cultura, il cosiddetto senso comune. C'è insomma nel legame sociale un'intrinseca pericolosità, legata al fatto che esso tende a ridurre la varietà dei modi di sentire, di pensare e di agire individuali, e le componenti culturalmente innovative in essa presenti. La storia dell'uomo non sarebbe concepibile se non si ammettesse che la spinta verso l'omologazione e il "conformismo", che oggi riconosce un fondamento neurobiologico, è stata compensata da una spinta di segno diverso verso la differenziazione. Già nella Politica del Super-io, la cui prima stesura risale al 1987, sottolineavo il fatto che il bisogno di appartenenza/integrazione sociale ha una tale potenza che se la Natura non avesse corredato il cervello umano di un bisogno di segno opposto, atto a promuovere la differenziazione individuale, la personalità umana sarebbe stata omologabile a quella di un automa culturalmente porgrammato. Nella versione originaria della teoria dei neuroni specchio questo aspetto non è stato sufficientemente considerato. Il libro di Iacoboni, tra l'altro, colma questa lacuna avanzando un'ipotesi affascinante, per quanto bisognosa di ulteriori conferme. 2. Iacoboni fornisce anzitutto un aggiornamento sulle diverse categorie di neuroni specchio che si vanno definendo attraverso la ricerca. La scoperta originaria ha identificato cellule motorie presenti nell'area F5 del cervello dotate di una mai sospettata capacità sensoriale, tale per cui essi si attivano anche semplicemente guardando un'azione compiuta da un altro. Oggi si ritiene che esistano almeno quattro diverse categorie di neuroni specchio: i neuroni specchio canonici, quelli congruenti in senso stretto, quelli congruenti in senso lato e quelli logicamente correlati: "I neuroni canonici si attivano in presenza di determinati oggetti afferrabili, i neuroni specchio vedere azioni di afferramento... I neuroni canonici sono sensibili alla dimensione degli oggetti afferrabili. Ad esempio, se una cellula scarica solo quando la scimmia afferra un oggetto piccolo, come un pezzetto di mela, usando la presa di precisione con pollice e indice, la stessa cellula si attiverà solo se la scimmia vede un oggetto similmente piccolo, ma non nel caso in cui veda una mela intera, che può essere afferrata soltanto con una presa a piena mano. Analogamente, i neuroni canonici dell’area F5 che si attivano quando la scimmia afferra una intera con una presa a piena mano scaricheranno anche quando l’animale vede una mela intera, ma non se vede un acino d’uva, che richiederebbe una presa di precisione. La correlazione fra azione e percezione nei neuroni canonici è davvero molto forte. E i neuroni specchio? Anche alcuni di essi mostrano questa stretta correlazione fra azione e percezione. Sono le cellule denominate neuroni specchio «congruenti in senso stretto», in quanto si attivano per azioni identiche, che siano eseguite oppure osservate. Ad esempio, un neurone specchio congruente in senso stretto scarica quando la scimmia afferra con una presa di precisione e quando vede qualcun altro afferrare con una presa di precisione. Un altro neurone specchio congruente in senso stretto si attiverà quando la scimmia afferra con una presa a piena mano e quando vede qualcun altro afferrare con una presa a piena mano. Vi sono tuttavia altri neuroni specchio che mostrano una relazione meno stretta fra azioni eseguite e osservate. Si tratta dei neuroni specchio «congruenti in senso lato», che si attivano alla vista di un’azione non necessariamente identica all’azione eseguita, ma che raggiunge uno scopo simile. Ad esempio, un neurone specchio congruente in senso lato può scaricare quando la scimmia sta afferrando del cibo con la mano e quando vede qualcun altro prendere del cibo con la bocca. In nessun caso riscontrato finora, la scarica dei neuroni specchio durante l’osservazione di un’azione è stata modulata in base all’identità dell’oggetto afferrato. Mela o arancia? Nocciolina o uvetta? Non importa. Per le finalità motorie importa solo la taglia, e ciò è pienamente sensato: gli oggetti più voluminosi richiedono la presa a piena mano, i più piccoli la presa di precisione. La scarica dei neuroni specchio durante un’azione osservata è anche piuttosto indipendente dalla distanza a cui si svolge l’azione: la scena può essere vicina o lontana. Inoltre, i neuroni specchio si attivano allo stesso modo nel vedere una mano che afferra, indipendentemente che sia umana o di scimmia. Scaricano in modo simile sia che lo sperimentatore, dopo aver afferrato un pezzo di cibo, lo dia alla scimmia con gli elettrodi impiantati sia a una seconda scimmia del laboratorio: ciò significa che la valenza di ricompensa dell’azione di afferramento non condiziona la risposta dei neuroni specchio." Una classe molto interessante di neuroni specchio codifica azioni osservate che sono o logicamente connesse alle azioni eseguite. Un neurone specchio «logicamente correlato» è uno che, ad esempio, si attiva alla vista di cibo che viene collocato sul tavolo e anche quando la scimmia afferra lo stesso cibo e lo porta alla bocca. Questa classe di cellule può essere parte di una catena neuronale di cellule specchio importanti nella codifica non tanto dell'azione osservata, ma soprattutto dell'intenzione che vi è associata. Intenzione che si compie tramite una sequenza di azioni più semplici: raggiungere la tazza, afferrarla, portarla alla bocca, quindi bere da essa. Una caratteristica davvero rivelatrice dei neuroni specchio dei macachi è data dal fatto che non si attivano alla vista di un'azione mimata: lo svolgimento di un atto di prensione in assenza di un oggetto non innesca alcuna scarica. Questo potrebbe sembrarci strano, ma in realtà non lo è affatto, dato che le scimmie non usano la mimica. Noi umani, invece, lo facciamo, e in effetti le aree dei nostri neuroni specchio si attivano per azioni più astratte di quanto accada nel caso delle scimmie. I numerosi stadi evolutivi che separano le scimmie dagli esseri umani possono facilmente giustificare una simile differenza." (pp. 28-30) Tutte queste categorie di neuroni specchio sono state scoperte anche nell'uomo, nel quale ovviamente svolgono funzioni più complesse. Esse implicano, infatti, il riferimento alle intenzioni sottese alle azioni: "La proprietà di base dei neuroni specchio, cioè il loro attivarsi sia per l'atto di afferrare una tazza sia per un equivalente atto di afferramento che viene soltanto osservato, lascia supporre che queste cellule contribuiscano al riconoscimento delle azioni fatte da altre persone. Lascia anche supporre che il processo di «riconoscimento dell'azione» in tal modo effettuato sia una sorta di simulazione o di imitazione interna delle azioni osservate. Dato che le nostre azioni sono quasi sempre associate a specifiche intenzioni, l'attivazione nel mio cervello degli stessi neuroni da me usati per compiere le mie azioni può anche consentirmi di capire le intenzioni sottese alle azioni eseguite da altre persone. Tuttavia, non può essere così semplice. C'è un problema, esattamente quello che devo affrontare quando vedo mia moglie afferrare il bicchiere durante la nostra discussione: la stessa azione può essere associata a intenzioni differenti. In effetti accade di rado, se non mai, che vi sia una correlazione uno-a-uno, che a una certa azione corrisponda cioè unicamente una certa intenzione. Così come io posso afferrare un bicchiere mosso da intenzioni differenti, lo stesso vale per gli altri. I neuroni specchio differenziano fra la stessa azione associata a intenzioni diverse?" (p. 33) Gli esperimenti hanno fornito una risposta positiva: "i neuroni specchio ci consentono di capire le intenzioni degli altri." (p. 36) Questa capacità è il fondamento dei comportamenti imitativi, che nell'uomo hanno un rilievo e un'importanza particolari: "La nostra spinta a imitare sembra essere presente in maniera molto forte sin dalla nascita, senza in seguito mai venire meno. Tramontata la vecchia visione ottocentesca secondo cui la facoltà di imitare sarebbe diffusa pressoché in tutto il regno animale, «scendendo » fino alle api di Darwin, la tendenza oggi prevalente è proprio quella opposta: attualmente quasi tutti gli studiosi ritengono infatti che la vera imitazione sia propria solo degli umani e forse delle scimmie antropomorfe, come ad esempio gli scimpanzé. Di fatto, l'imitazione è considerata una caratteristica talmente pervasiva del comportamento umano che molti autori hanno elaborato teorie in cui essa assume un ruolo centrale." (p. 47) Il suo ruolo a livello di fasi precoci dello sviluppo è ovvio: "Dato che il cervello dei neonati non possiede capacità cognitive molto sofisticate, il fatto che essi siano in grado di imitare suggerisce che l'imitazione dipenda da un meccanismo neurale relativamente semplice." (p. 48) Essa prosegue nel corso di tutta l'evoluzione della personalità, ma non viene meno nell'adulto: "Da adulti, non abbiamo perso la nostra infantile attrazione per l'uso dell'imitazione. Al contrario, il comportamento imitativo è una presenza forte nell'età adulta, tanto che, nel trasmettere di generazione in generazione le pratiche sociali, ha prodotto l'estesa gamma di differenti culture di tutto il mondo. Ha anche dato origine, nel corso di decine di migliaia di anni, alle migliaia di lingue esistenti, e sta tuttora alimentando i vari accenti regionali, nel momento stesso in cui tutti noi parliamo." (pp. 49-50) E' difficile minimizzare l'importanza della capacità imitativa nell'esperienza umana: "È dunque certo che nei bambini piccoli l'imitazione sia, a un tempo, orientata all'obiettivo ed eseguita «come davanti a uno specchio». Ora si trattava di capire in che modo unire concettualmente questi due aspetti dell'imitazione. In sostanza, qual è la finalità di imitare come se si fosse di fronte a uno specchio? Possiamo partire dall'osservare che due persone faccia a faccia che si imitano reciprocamente come davanti a uno specchio, nel far ciò, usano la stessa porzione di spazio: quando tu e io siamo l'uno di fronte all'altro e ci imitiamo, la mia mano destra è nella stessa porzione di spazio della tua mano sinistra; noi due « condividiamo » uno spazio e in questo modo ci rendiamo più vicini. Credo che uno dei principali obiettivi di questa imitazione possa in realtà configurarsi proprio nel facilitare un'«intimità» concreta tra il sé e l'altro durante le relazioni sociali. La tendenza dell'imitazione e dei neuroni specchio nel riuscire a ricreare questo tipo di intimità potrebbe rappresentare una forma originaria, primordiale, di intersoggettività da cui si sono modellati il sé e l'altro (aspetto che sarà approfondito in seguito)... Ha senso ipotizzare l'implicazione dei neuroni specchio nello spontaneo «rispecchiarsi» delle persone, specialmente alla luce dei dati di neuroimaging in nostro possesso relativi all'imitazione orientata allo scopo e agita «come davanti allo specchio». L'intimità del sé con l'altro che l'imitazione e i neuroni specchio rendono più facile può costituire il primo passo verso l'empatia, un elemento fondamentale della cognizione sociale... Lo studio dell'età evolutiva umana mostra anche come l'imitazione sia strettamente legata allo sviluppo di importanti abilità sociali, come ad esempio il comprendere che altre persone hanno i loro pensieri, le loro credenze, i loro desideri. Se l'imitazione è così determinante nello sviluppo di queste abilità sociali, devono esserlo anche i neuroni specchio che quell'imitazione consentono." (pp. 65-66) Se tutto questo è vero, una prima conclusione importante è che la teoria cognitivista della comprensione delle intenzioni e degli stati d'animo altrui è infondata: "La locuzione «lettura della mente» suggerisce implicitamente che la nostra comprensione degli stati mentali altrui richieda l'uso di pensieri inferenziali e/o simbolici. In effetti, è stato questo l'assunto dominante fra gli scienziati interessati alla facoltà cognitiva di capire gli stati mentali degli altri. Secondo la visione dominante, tutti noi (a partire dalla nostra infanzia) comprendiamo lo stato mentale altrui impiegando lo stesso approccio che gli scienziati usano per capire i fenomeni naturali. Dopo aver osservato il comportamento di altre persone, costruiamo teorie sul loro stato mentale proprio come i fisici farebbero al riguardo di sistemi della fisica. Poi cerchiamo un'evidenza empirica a supporto della teoria: se la prova non la conferma, correggiamo la teoria, magari ne creiamo persino una nuova. Ad esempio, se vediamo qualcuno piangere dopo essere caduto, teorizziamo che il pianto esprime il dolore. Ma se poi ci capita di vedere qualcun altro che piange nel ricevere un prestigioso premio siamo costretti a rivedere la nostra teoria relativa al pianto e agli stati mentali ed emotivi a esso associati. In gergo scientifico, questo modello della comprensione degli stati mentali altrui viene chiamato «teoria della teoria» (espressione che forse disorienta), perché l'attribuire stati mentali ad altre persone è in sé qualcosa di simile a una teoria scientifica: questi stati non possono essere osservati direttamente, ma si può prevedere il comportamento degli altri sulla base di una serie dileggi causali che uniscono le percezioni, i desideri e le credenze, le decisioni e le azioni... La mente non è un libro. Io non credo che noi «leggiamo» le menti degli altri, e dovremmo smetterla di usare termini che già contengono in sé una distorsione del modo di pensare a questo processo. Noi leggiamo il mondo, questo sì, ma non le menti delle altre persone nel senso in cui questa espressione viene usata... Ho sempre ritenuto questo modello relativo al modo di capire la mente altrui troppo complesso e, non a caso, pericolosamente simile al modo in cui coloro che lo appoggiano (accademici, naturalmente) tendono a pensare. Baso i dubbi che nutro nei confronti della teoria della teoria sulla elementare osservazione che noi attribuiamo stati mentali alle altre persone in continuazione, spesso senza nemmeno dedicare al problema alcuna riflessione... Non credo che abbiamo bisogno di sovraccaricare il cervello con complessi pensieri inferenziali sul perché le persone fanno ciò che fanno o ciò che stanno per fare, soprattutto per via di quel nostro pressoché continuo comprendere le più banali azioni quotidiane degli esseri umani che ci stanno intorno, come accade a tutti noi dalla mattina alla sera. Non saremmo in grado di gestire tutto questo se dovessimo essere degli scienziati come Einstein nell'analizzare ogni singola persona che abbiamo accanto. E non ero una voce isolata nell'oppormi alla teoria della teoria: ancora quando rappresentava il modello dominante nel campo della psicologia dell'età evolutiva, molto prima che i neuroni specchio fossero scoperti, una minoranza di ricercatori aveva proposto un'alternativa chiamata «teoria della simulazione», secondo la quale noi comprendiamo gli stati mentali altrui facendo letteralmente finta di essere nei loro panni. Si tratta di un'idea costituita da due varianti, una più radicale, l'altra meno. La versione moderata sostiene che la finzione di mettersi nei panni altrui è un processo cognitivo, deliberato e intenzionale, mentre nella variante più radicale si ritiene che simuliamo automaticamente, in maniera del tutto inconscia, ciò che le altre persone fanno. In questo caso mi schiero con i radicali, dato che una simile forma automatica e inconscia di simulazione si combina bene con ciò che sappiamo dei neuroni specchio. Dopo la scoperta dei neuroni specchio, la popolarità della teoria della teoria quale spiegazione del modo in cui comprendiamo la mente altrui declinò bruscamente, in parallelo a una sempre crescente accettazione dell'ipotesi della simulazione. " (pp. 67-69) Tra le conseguenze o i meriti della scoperta dei neuroni specchio mi sembra che si debba annoverare anche il fatto che esso ha invalidato definitivamente la pretesa imperialistica del cognitivismo, che ha cercato invano di far rientrare nella sua cornice il mondo delle emozioni, a partire dall'empatia. Ciò che oggi si può ritenere certo è che l'uomo, inteso come essere dotato di un'esperienza soggettiva dell'altro e di sé, nasce dal Sentire e non dalla Ragione. 3. La scoperta dei neuroni specchio ha riabilitato e valorizzato il ruolo dell’empatia, come modalità preriflessiva e precognitiva. All’empatia, appunto, è dedicato il capitolo 4. La relazione tra capacità imitativa e empatia, ipotizzata già qualche anno fa da Vittorio Gallese, si fonda sull’"idea che sia la mimica a precedere e favorire il riconoscimento [degli stati d’animo altrui]" (p. 100): "I neuroni specchio producono una simulazione irriflessiva, automatica (o «imitazione interna», come l'ho qui a volte definita) delle espressioni facciali altrui, e questo processo di simulazione non richiede un riconoscimento esplicito, intenzionale dell'espressione imitata. Simultaneamente, i neuroni specchio inviano dei segnali ai centri emozionali situati nel sistema limbico del cervello. L'attività neurale qui innescata da questi segnali provenienti dai neuroni specchio ci consente di provare le emozioni associate alle espressioni facciali osservate: la felicità associata a un sorriso, la tristezza associata a un corrugamento della fronte. Soltanto dopo che sentiamo queste emozioni internamente, siamo in grado di riconoscerle esplicitamente." (p. 100) Occorre dunque ammettere un collegamento tra i sistemi neurali dell’imitazione (il sistema dei neuroni specchio) e i sistemi neurali delle emozioni (il sistema limbico). Ma come possono comunicare tra loro sistemi per molti aspetti diversi? La comunicazione avviene in virtù di una piccola struttura denomina tecnicamente "insula", com’è risultato chiaro a livello sperimentale: "Le aree dei neuroni specchio, l'insula e le aree emozionali del cervello site nel sistema limbico, in particolare l'amigdala, una struttura limbica molto reattiva ai volti, si attivavano mentre i soggetti osservavano le facce, e l'attività si incrementava in quei soggetti che, in aggiunta, imitavano quel che vedevano. Questi risultati avvaloravano chiaramente l'idea che le aree dei neuroni specchio ci aiutano a comprendere le emozioni altrui attraverso una qualche forma di imitazione interna. Secondo questa «ipotesi di empatia dei neuroni specchio», i neuroni specchio si attivano quando vediamo gli altri esprimere le proprie emozioni come se fossimo noi stessi a porre in atto quelle espressioni facciali. Per mezzo di questa attivazione, i neuroni inviano anche dei segnali ai centri cerebrali emozionali del sistema limbico, facendo sì che noi stessi proviamo quel che provano le persone che abbiamo davanti." (pp. 105-106) Tra le emozioni che promuovono l’identificazione, è fuor di dubbio che una delle più importanti sia il dolore. Dato che il dolore non è un’azione, ricondurne il riconoscimento ai neuroni specchio non è semplice. Una ricerca ha prodotto la conferma che il riconoscimento del dolore altrui è correlata alla corteccia del cingolo e ha fornito un dato suggestivo: "Alla corteccia del cingolo sono associate numerose funzioni, una delle quali è la risposta alla stimolazione dolorosa. William Hutchison e i suoi colleghi della University of Toronto hanno studiato alcune cellule della corteccia cingolata umana che rispondevano selettivamente a stimoli dolorosi applicati ai pazienti, come ad esempio punture di spillo. I ricercatori hanno poi scoperto che una di queste cellule rispondeva anche alla vista di punture di spillo applicate a qualcun altro: in questo caso, alle dita dell'esaminatore. Questa cellula individuata da Hutchison si comporta in modo simile a un neurone specchio, tranne per il fatto che, a differenza dei neuroni specchio che ho descritto finora, sembra essere una cellula specializzata nell'elaborazione del dolore. E tipico dei neuroni specchio attivarsi per le azioni, non per il dolore. Vale a dire, sono primariamente dei neuroni motori (anche se ovviamente hanno delle importanti proprietà sensoriali). […] Abbiamo formulato l'ipotesi che noi rispecchiamo le emozioni delle altre persone tramite l'attivazione, in una prima fase, dei neuroni specchio implicati nelle espressioni facciali (che sono quindi neuroni motori), i quali a loro volta attivano i centri cerebrali emozionali. Secondo il nostro modello, il rispecchiamento dell'emozione è mediato dalla simulazione dell'azione […]. Il neurone della corteccia cingolata umana descritto da Hutchison e colleghi poteva far presupporre l'esistenza di meccanismi di simulazione del dolore che bypassassero il comportamento motorio associato al dolore." (p. 108-109) Penso che lo spunto fornito dalla ricerca di Hutchison merita di essere approfondito. Al di là della registrazione di espressioni facciali, si danno, nell’apparato mentale umano, di sicuro meccanismi di sintonizzazione per cui lo stato di sofferenza dell’altro viene colto intuitivamente. Come funzionino neurofisiologicamente questi meccanismi, nessuno lo sa, ma troppi dati psicologici e psicoanalitici ne confermano l’esistenza. 4. Il quinto capitolo affronta il problema del "modo in cui il cervello codifica la "titolarità dell’azione", vale a dire il senso di essere il "possessore" di una data azione" (p. 115): il mistero insomma della consapevolezza del Sé. Sul piano neurobiologico, tale mistero può essere affrontato a partire da un dato certo: "Il
tasso di attivazione dei neuroni specchio non è lo stesso per le azioni
del sé e per quelle degli altri. Come abbiamo avuto modo di vedere
molto spesso, di fatto in tutti gli esperimenti condotti sui neuroni
specchio, si verifica una scarica molto più forte per le azioni del sé
che per le azioni altrui. Quindi i neuroni specchio traducono sia
l'interdipendenza del sé e dell'altro, dato che si attivano per le
azioni di entrambi, sia l'indipendenza che simultaneamente percepiamo e
di cui necessitiamo, dato che si attivano con maggiore forza per le
azioni del sé." (pp. 117-118) Se è dunque certo che l’io si origina dall’interazione con l’altro, esso assume successivamente un rilievo particolare. Per quanto riguarda il primo aspetto – la nascita del Sé – Iacoboni non ha dubbi: "La mia teoria relativa al modo in cui i neuroni specchio diventano il collante neurale fra il sé e l'altro parte dallo sviluppo dei neuroni specchio nel cervello infantile. Sebbene non vi siano ancora dati empirici disponibili, non è difficile ipotizzare uno scenario molto verosimile. Il bambino sorride, i genitori gli sorridono in risposta. Due minuti dopo, il bambino sorride di nuovo, e ancora una volta i genitori fanno lo stesso. Grazie al comportamento imitativo dei genitori, il cervello del bambino può associare alla vista di un volto che sorride il piano motorio necessario al sorriso. E così, ecco che nel suo cervello si sono formati i neuroni specchio per il riconoscimento dell'espressione facciale del sorriso. La volta successiva che il bambino vedrà qualcun altro sorridere, nel suo cervello verrà evocata l'attività neurale associata al piano motorio necessario per sorridere, con la simulazione di un sorriso. Se questa ipotesi di come i neuroni specchio prendono inizialmente forma nel cervello è vera - e io credo che quasi certamente lo sia - allora il sé e l'altro sono inestricabilmente combinati nei neuroni specchio. In effetti, secondo questa ipotesi, nel cervello infantile i neuroni specchio sono formati dalle interazioni fra il sé e l'altro. , questo il concetto chiave da tenere a mente per comprendere il ruolo dei neuroni specchio nel comportamento sociale umano. Ha senso il fatto che, più avanti nella nostra vita, noi usiamo queste stesse cellule nervose per capire gli stati mentali altrui. Ma ha ugualmente senso il fatto che le usiamo per costruire un senso del sé, dato che queste cellule si originano in una fase precoce della vita, quando il comportamento delle altre persone è il riflesso del nostro stesso comportamento. Negli altri, con i neuroni specchio, vediamo noi stessi." (p. 119) Dunque: "L'autoriconoscimento e l'imitazione procedono di pari passo perché i neuroni specchio si formano, in una fase iniziale della vita, quando l'altro imita ii sé. I neuroni specchio sono la conseguenza neurale di questa precoce sincronia motoria tra il sé e l'altro e divengono gli elementi neurali che codificano gli attori di questa sincronia (il sé e l'altro, appunto)." (p. 119) Per quanto riguarda l’autoriconoscimento, l’ipotesi che Iacoboni avanza è la seguente: "Abbiamo visto che i neuroni specchio, attraverso un meccanismo di simulazione, mappano le azioni dell'altro nel sé. Fanno dell'altro «un altro sé», come dice Gallese. Quando guardiamo una fotografia di noi stessi, in realtà ci sono due sé, l'uno di fronte all'altro. Il «sé percepito» è quello nella fotografia, mentre il «sé percipiente» è quello che osserva la fotografia. I neuroni specchio nel cervello del «sé percipiente» elaborano il «sé percepito» come l'altro, e nuovamente effettuano la mappatura dell'altro (in questo caso implicando delle espressioni facciali) nel sé. Ma a questo punto le espressioni facciali del «sé percepito» già appartengono al repertorio motorio del «sé percipiente». Perciò il processo simulativo effettuato dai neuroni specchio è altamente facilitato e ne deriva una maggiore attività del sistema umano dei neuroni specchio." (p. 129) Occorre ammettere, dunque, un lento processo di differenziazione che porta da un’originaria percezione dell’Io e dell’altro fusi tra loro, se non indistinti, alla definizione dell’altro come altro da sé e del Sé autoconsapevole: "Se davvero i neuroni specchio si modellano nel nostro cervello grazie all'attività coordinata di madre e padre e del figlio, allora queste cellule non solo incorporano sia il sé sia l'altro, ma iniziano a farlo in una fase in cui il bambino possiede solo un senso indifferenziato del noi (madre-figlio o padre-figlio) e non ancora il senso di un io indipendente, prima cioè di essere in grado di superare il test di riconoscimento allo specchio. Da questo «noi» primario, tuttavia, il bambino, lentamente ma con sicurezza, perviene a recepire l'altro in modo naturale e diretto, e ovviamente senza alcuna complessa inferenza: avanza sino a ricavare, staccandolo da ciò che era indistinto, un adeguato senso del sé e dell'altro. In che modo? Con l'aiuto di un tipo particolare di neuroni specchio, che ho chiamato neuroni specchio super... Per tutta la vita, da quel momento in avanti, l'attività dei neuroni specchio continuerà a essere l'impronta neurale di questo senso del noi a cui tanto il sé che l'altro appartengono." (p. 136) Ma cosa sono i neuroni specchio super? Iacoboni lo spiega nel cap. 7: "Se i neuroni specchio sono elementi neurali tanto potenti da aiutarci a ricostruire nel nostro cervello ciò che le altre persone fanno, cosa di cui sono convinto, il processo evoluzionistico che ha creato un simile meccanismo neurale deve anche aver previsto qualche forma di controllo su di esso. In fondo, per noi sarebbe molto poco efficiente imitare tutte le azioni che osserviamo. Inoltre, l'imitazione assume molte forme, alcune delle quali altamente complesse. Ap Dijksterhuis, uno psicologo sociale olandese, traccia una distinzione tra le forme complesse di imitazione, che rientrano in quella che chiama «via alta», in opposizione alla «via bassa», costituita da imitazioni motorie semplici e dirette (afferrare la tazza, ad esempio). In merito alla sua «via alta», Dijksterhuis ha raccolto una serie impressionante di dati comportamentali che confermano svariate forme di imitazione complessa nel comportamento umano... [L’]imitazione
della «via alta» spesso include una serie di comportamenti piuttosto
complessi e sottili, ed è difficile credere che dei comportamenti
complessi possano essere implementati da cellule come quelle scoperte a
Parma, che sembrano maggiormente adatte a forme di imitazione più
semplici. Sebbene alcuni neuroni specchio di questi animali mostrino
una forma più sofisticata di attivazione (ricordiamo le cellule
«logicamente correlate» che scaricano non per la stessa azione
osservata ed eseguita, ma per altre logicamente correlate, come posare
del cibo sul tavolo e afferrano per portarlo alla bocca), si ha la
sensazione che anche questo tipo di attività neurale non sia
sufficiente per l'imitazione di aspetti complessi del comportamento
umano. Ritenevo che la raffinata imitazione di comportamenti complessi che noi esseri umani compiamo in continuazione richiedesse molto probabilmente un concetto più ampio di sistema specchio, in grado di includere cellule il cui ruolo fosse il controllo e la modulazione dei più semplici neuroni specchio classici: un ordine superiore di neuroni specchio definibili «neuroni specchio super», non perché siano dotati di superpoteri, ma perché potrebbero concepirsi come uno strato neuronale funzionale posto «al di sopra» dei neuroni specchio classici, per controllarne e modularne l'attività. Dopo aver sviluppato queste prime idee sui neuroni specchio super, mi domandai, come qualsiasi imperterrito esecutore di mappe cerebrali avrebbe fatto, in quale punto del cervello questi neuroni specchio super potevano trovarsi. Optai per tre regioni cerebrali del lobo frontale (la parte anteriore del cervello) che sono connesse con l'area frontale contenente neuroni specchio, e si chiamano: corteccia orbitofrontale, corteccia anteriore del cingolo e area presupplementare motoria... Finora abbiamo ottenuto registrazioni di circa sessanta neuroni che mostrano proprietà tipiche dei neuroni specchio, situati nelle aree in cui si supponeva un'attività dei neuroni specchio super. Alcune di queste cellule mostrano uno schema di attivazione neuronale molto interessante: aumentano la loro attività mentre il paziente esegue l'azione, come nelle scimmie; però, in netto contrasto rispetto ai neuroni specchio delle scimmie, cessano interamente di scaricare quando il paziente osserva l'azione. Un tale schema di attivazione lascia ipotizzare che queste cellule possano svolgere un ruolo inibitorio durante l'osservazione dell'azione. Con il loro disattivarsi, potrebbero «dire» ai più classici neuroni specchio, come pure ad altri neuroni motori, che quell'azione osservata non deve essere imitata. Inoltre, questa codifica differenziale per le azioni compiute in prima persona (aumento di attività) e le azioni di altri (riduzione di attività) potrebbe rappresentare una distinzione neurale, straordinariamente semplice, fra il sé e l'altro implementata da questo tipo speciale di neuroni specchio super. In chiusura del capitolo 5, ho ipotizzato che i neuroni specchio possano consentirci di ricavare, staccandolo dal primario senso intersoggettivo del «noi», un proprio adeguato senso del sé e dell'altro: un processo molto verosimilmente implementato da questi particolari neuroni specchio super. In effetti, le aree cerebrali nelle quali abbiamo registrato queste cellule sono le meno sviluppate nella prima infanzia e dimostrano cambiamenti radicali in fasi successive dell'età evolutiva..." (pp. 173-175) Per quanto l’ipotesi dei neuroni specchio super richiederà ulteriori conferme, essa ha una particolare importanza, perché potrebbe fornire una delle chiavi che spiegano la differenziazione della personalità a partire da un coinvolgimento originario che, condizionando il soggetto all’imitazione, potrebbe letteralmente impedirla. I neuroni specchio super, inibendo l'imitazione dettata dall'empatia, potrebbero essere correlati al bisogno di opposizione/individuazione che io ho ammesso far parte della natura umana e al sistema funzionale psichico dell'Io antitetico che si costruisce sulla base di esso. Fino a questo punto, sembra che la scoperta dei neuroni specchio comporti solo aspetti positivi. le cose, però, secondo Iacoboni, non stanno così. Egli scrive: "Purtroppo, non tutte le forme complesse di comportamento imitativo si rivelano positive per noi (intendendo la società nel suo insieme). E’ quindi giunto il momento di indagare il rispecchiamento come fenomeno sociale che può indurre quelli che in gergo scientifico sono chiamati «comportamenti problema»." (pp. 175) 5. Devo subito rilevare che, a questo punto, il libro entra su terreni discorsivi di notevole spessore, ma che sono inesorabilmente esposti al rischio di interpretazioni "filosofiche" o "ideologiche" dei dati scientifici. Tali terreni sono riconducibili a discipline come la neuroetica, il neuromarketing, la neuropolitica che si vanno configurando da poco e sono ancora sub-judice. Non si può negare, però, che i problemi che esse affrontano sono affascinanti. Il primo problema, legato alla neuroetica, concerne addirittura il libero arbitrio. Sulla base di molteplici dati convergenti a sostegno dell’ipotesi che la violenza mediatica induca violenza imitativa, Iacoboni scrive: "Molte concezioni a lungo vagheggiate in merito all'autonomia umana sono chiaramente messe in discussione dalla minuziosa indagine neuroscientifica delle radici biologiche del comportamento umano. La nozione di «libero arbitrio» è fondamentale nella nostra visione del mondo, tuttavia, più cose scopriamo sui neuroni specchio, più ci rendiamo conto di non essere degli agenti perfettamente razionali che agiscono in modo completamente libero. I neuroni specchio producono nel nostro cervello delle tendenze all'imitazione di cui spesso non siamo consapevoli, e che limitano la nostra autonomia con potenti condizionamenti che agiscono sul piano sociale. Noi esseri umani siamo animali sociali, ciò nonostante la nostra socialità ci rende agenti sociali con autonomia limitata. Dovremmo negare questa realtà biologica sulla base del fatto che una spiegazione dei condizionamenti sociali che generano i comportamenti violenti potrebbe in teoria condonare la violenza in questione? Credo che sarebbe più logico utilizzare la conoscenza delle radici biologiche dei limiti alla nostra autonomia sociale per prevenire i comportamenti violenti. Per fare questo, occorre abbandonare la convinzione di lunga data su cui si fonda la cosiddetta «istanza dell'autonomia»... Molti dibattiti sulla violenza imitativa distinguono tra gli effetti a breve e a lungo termine prodotti dal guardare la violenza mostrata dai media. E’ chiaramente plausibile che i neuroni specchio classici e i neuroni specchio super siano implicati in due degli effetti a breve termine: l'imitazione immediata di un comportamento violento e un eccitamento generale prodotto dal vedere scene di violenza. Abbiamo già avuto modo di esaminare in parecchi contesti la natura pervasiva dell'imitazione umana e il ruolo determinante che vi svolgono i neuroni specchio. Le proprietà neurali di queste cellule possono facilmente spiegare l'imitazione diretta di comportamenti violenti, soprattutto di atti elementari di violenza, allo stesso modo in cui possono spiegare, come abbiamo visto, il rispecchiamento del sorriso, del movimento di una mano, dello sfregarsi il volto e così via. Se l'effetto camaleonte ci induce a imitare quello che vediamo, dobbiamo in qualche modo avere anche la possibilità di inibire un simile comportamento imitativo, altrimenti questo impulso a imitare si tradurrebbe per tutti noi in un grosso problema. Come si è appena visto nel capitolo 7, una delle funzioni più importanti dei neuroni specchio super potrebbe essere proprio questa inibizione dei più «classici» neuroni specchio, in modo tale da non essere compulsivamente indotti a imitare una certa azione tutte le volte che vediamo qualcun altro compierla. Si presume che l'osservare scene di violenza causi eccitamento, il quale, a sua volta, potrebbe spianare la strada alla violenza imitativa riducendo l'azione inibitrice dei neuroni specchio super, così che l'imitazione di un certo comportamento violento risulterebbe inibita in maniera meno efficace." (pp. 180-181) "I tipi di comportamento imitativo indotti, sia a breve che a lungo termine, dall'esposizione alla violenza mediatica sembrano corrispondere piuttosto bene alle funzioni dei neuroni specchio e dei neuroni specchio super. In precedenza abbiamo visto come i neuroni specchio possano senza dubbio esserci d'aiuto, nel consentire a tutti noi di provare sentimenti e di compiere azioni in grado di farci entrare in empatia con gli altri, ma ci dotano anche di un meccanismo neurobiologico che può favorire la violenza imitativa indotta dalla violenza mediatica." (p. 182) Questa "ambivalenza" funzionale dei neuroni specchio non è affatto chiara e convincete. Occorre, infatti ammettere che i neuroni specchio super, che modulano quelli canonici per impedire che l'io sia risucchiato dalla relazione con l’altro, possano giungere ad inibire l'empatia fino al punto di anestetizzarla. Qualcosa del genere, di fatto avviene, nel corso dell'evoluzione di ogni personalità, nella fase dell'adolescenza, ma a questo livello la funzione dell'inibizione nel promuovere la differenziazione della personalità è chiara. E' perlomeno azzardato, al di là di questo, pensare che la violenza imitativa indotta da quella mediatica sia un'espressione di automatismi neurobiologici. Iacoboni, che questo pensa, giunge anche a conclusioni che non sono affatto convicenti: "Il conflitto classico tra coloro che enfatizzano il determinismo biologico del comportamento umano e coloro che sono assert convinti della supremazia delle idee e del comportamento soci sulla nostra struttura biologica non ha mai preso in considerazione la possibilità che sia prima di tutto la nostra neurobiologia a dettai il nostro comportamento sociale. Credo che una migliore compresione dei meccanismi neurobiologici che modellano il comportamento sociale umano (in particolare la ricerca sui neuroni specchio) dovrebbe anche influire direttamente sulla formazione de nostri codici sociali... Il nostro istinto verso l'empatia può essere considerato una delle buone notizie che ci portano i neuroni specchio, mentre la violenza imitativa potrebbe rappresentare una cattiva notizia." (p. 188) Un po' più convincenti risultano le considerazioni sulla pubblicità e sulla politica, ma esse si fondano su dati ancora molto sommari per assumere grande importanza. 6. Come tutti i libri più recenti di divulgazione scientifica, anche quello di Iacoboni si conclude con una serie di riflessioni filosofiche ad ampio raggio. Riporto integralmente l’ultimo capitolo: "Neuroscienze esistenziali e società 1. Neuroni specchio tra di noi In questo libro, ho perlopiù descritto i dettagli della ricerca empirica sui neuroni specchio e le implicazioni che derivano da quella ricerca. Abbiamo visto come nel cervello delle scimmie i neuroni specchio siano coinvolti nel controllo di determinate azioni fondamentali del «repertorio motorio» dell'animale, come afferrare degli oggetti, addentare del cibo e produrre espressioni facciali comunicative. Queste cellule hanno anche la sorprendente proprietà di attivarsi quando la scimmia è del tutto immobile e sta unicamente guardando qualcun altro compiere quelle azioni. I neuroni specchio rispondono inoltre ai suoni associati alle azioni, come schiacciare una nocciolina, anche quando l'azione è fuori della portata dello sguardo. Si attivano persino quando una data azione è parzialmente nascosta alla vista e sono in grado di differenziare fra due azioni di afferramento identiche compiute con intenzioni diverse. Considerate nel loro insieme, queste cellule sembrano «mimare», nel cervello della scimmia che osserva, le azioni e le intenzioni di altri individui. A partire dalla ricerca sulle scimmie, e in parallelo con essa, i dati derivanti da studi di neuroimaging e stimolazione magnetica condotti su esseri umani hanno rivelato un sistema dei neuroni specchio che assolve le stesse funzioni viste per le scimmie. Però negli esseri umani il ruolo che il sistema dei neuroni specchio svolge nell'imitazione è ancora più determinante, essendo l'imitazione qualcosa di fondamentale per la nostra capacità di apprendimento e di trasmissione di culture e tradizioni locali, una capacità esponezialmente più grande di quella delle scimmie. Le aree umane dei neuroni specchio sembrano essere importanti anche per l'empatia, perr la consapevolezza del sé e per il linguaggio. Studiamo i neuroni specchio appena da quindici anni, ma abbiamo già potuto appurare che molto verosimilmente queste cellule sono di importanza vitale per la nostra comprensione d'insieme del cervello e della mente umana e, quindi, di noi stessi. Tutte queste ripercussioni discendono dal «semplice» meccanismo che induce i neuroni specchio ad attivarsi non solo durante le nostre azioni, ma anche durante l'osservazione delle medesime azioni compiute da altre persone. Il sistema dei neuroni specchio sembra proiettare all'interno del nostro cervello queste altre persone (gli psicoanalisti direbbero «introiettare»). Fino a che punto queste scoperte ci lasciano stupefatti? In un convegno a cui entrambi prendevamo parte, uno dei miei collaboratori, il neurochirurgo Itzhak Fried, al quale si deve il lavoro pionieristico condotto con gli elettrodi di profondità inseriti nel cervello dei pazienti epilettici da sottoporre a intervento chirurgico, mi raccontò un episodio. ltzhak opera pazienti sia a Los Angeles che in Israele. Un paio di anni fa, mentre si trovava appunto in quel paese, gli capitò di vedere in televisione la premiazione di un famoso attore israeliano, il quale, nel discorso di ringraziamento, menzionò i neuroni specchio. Secondo quanto riferitomi da Itzhak, l'attore raccontò al pubblico che i neuroscienziati avevano scoperto queste cellule cerebrali che si attivano quando qualcuno fa un'azione o un'espressione facciale e anche quando quel qualcuno osserva qualcun altro fare la stessa azione o la stessa espressione facciale: descrivendo l'essenziale, in sostanza. L'attore aggiunse poi che, mentre i neuroscienziati trovavano le proprietà dei neuroni specchio straordinarie, agli attori queste scoperte non sembravano così sorprendenti, perché da sempre sapevano (o meglio, «sentivano») che nel loro cervello doveva esserci qualcosa del genere! Tutte le volte che vedo qualcuno con un'espressione sofferente in viso, disse ancora l'attore, sento dentro di me il suo dolore. Un giorno raccontai questo aneddoto a Giacomo Rizzolatti, il quale mi disse di aver letto qualcosa di simile su un giornale che pubblicava un'intervista a Peter Brook, il celebre regista teatrale. Che si tratti di un altro meme ad alto tasso di replicabilità? In effetti, se ci pensiamo, è evidente che quell'attore israeliano avesse ragione. In molti casi, si tratta di una verità lapalissiana. Quando guardiamo introspettivamente dentro di noi, la prima cosa che ci troviamo è proprio questa immediata percezione delle azioni e delle emozioni altrui. E allora perché i neuroscienziati considerarono (e considerano tuttora) i neuroni specchio delle cellule tanto speciali? Per rispondere ritengo si debba risalire agli assunti discussi all'inizio del libro, assunti che tutti noi tendiamo a credere siano quelli su cui si fonda il nostro modo di guardare ai fenomeni che ci si presentano. Quanto meno nella cultura occidentale, la visione dominante nel modo di pensare alla mente risale a Cartesio, e individua il punto di partenza della mente e del sé nell'atto del pensare, un atto personale, privato, solitario: il celebre cogito del cogito ergo sum. Alcuni filosofi hanno sostenuto che molti problemi sorgono dall'accettazione di queste premesse, compreso anche il famoso problema delle altre menti, tornato in questo libro a più riprese e in contesti diversi. Altri pensatori, tuttavia, tra i quali Wittgenstein, alcuni esponenti della fenomenologia esistenzialista e alcuni filosofi giapponesi, hanno messo in dubbio l'idea che il problema delle altre menti sia in fondo tanto complesso, sottolineando l'immediatezza del nostro percepire gli stati mentali delle altre persone. Ricordiamo l'affermazione di Merleau-Ponty: «Vivo nell'espressione facciale dell'altro, nel momento in cui lo sento vivere nella mia». E Wittgenstein diceva: «Noi vediamo l'emozione... Non vediamo delle contorsioni facciali dalle quali deduciamo per inferenza che quella persona sta provando gioia, dolore o noia. Noi definiamo immediatamente un volto come triste, radioso, annoiato, anche quando non siamo in grado di fornire altre descrizioni dei suoi lineamenti». I neuroni specchio sembrano spiegare come e perché Wittgenstein e gli esponenti della fenomenologia esistenziale fossero sin da allora nel giusto.
In questo capitolo conclusivo, affronterò queste implicazioni più
esplicitamente teoriche della scoperta dei neuroni specchio, delle
quali ritengo che due siano le più importanti. La prima concerne
l'intersoggettività, che ha già prodotto una letteratura piuttosto
vasta. La seconda è stata molto meno discussa, ma io credo possa essere
ancora più importante: riguarda il ruolo delle neuroscienze nel dare
forma e nel cambiare in meglio la nostra società. 2. Il problema dell'intersoggettività L'intersoggettività, la condivisione di senso fra gli individui, è sempre stata percepita dal cognitivismo classico come un problema. In termini semplici (estremamente semplici, libri e libri sono stati scritti sull'argomento): se ho accesso solo alla mia mente, che è un'entità molto privata, come posso accedere direttamente alla mente degli altri, come posso in alcun modo capirla? Come posso condividere il mondo con gli altri, e come possono loro condividere i loro stati mentali con me? Una soluzione classica a questo problema l'ha fornita l'argomento dell'analogia, che in sintesi propone quanto segue: se io analizzo la mia mente e la sua attività in relazione al mio corpo e alle sue azioni, mi rendo conto esserci dei collegamenti diretti tra la mia mente e il mio corpo. Se sono nervoso sudo, anche se non fa caldo, se provo dolore grido. Fin qui tutto chiaro, e ora, alla luce di questa comprensione, guardo l'altro e trovo un'analogia tra quel corpo e il mio stesso corpo. E se una simile analogia esiste, può esserci anche un'analogia fra il corpo dell'altro e la mente dell'altro. Perciò, se vedo un'altra persona sudare quando non fa caldo, posso concluderne che sia nervosa, se la vedo gridare deduco che stia soffrendo. Per analogia, giungo alla conclusione che il suo comportamento debba in qualche modo costituire un indizio che mi permette di capire le sue emozioni e quanto sta accadendo nella sua mente. Anche se questo genere di analogia non mi consente di essere del tutto certo in merito agli stati mentali degli altri, e non mi consente di condividere i loro sentimenti e le loro esperienze, sicuramente mi rende in grado di dedurre con ragionevole certezza che le altre persone hanno una mente come la mia. O almeno così sembrerebbe. Questo argomento ha subito pesanti critiche da parte di alcuni pensatori sulla base del fatto che questo modo di ragionare sugli stati mentali altrui è troppo complesso per qualcosa che sembriamo compiere in continuazione con tanta naturalezza, senza sforzo e automaticamente. In effetti, ricorda l'utilizzo dell'approccio inferenziale per la comprensione degli stati mentali altrui proposto dalla teoria della teoria, di cui si è parlato nel capitolo 2. Un tipo diverso di critica all'argomento dell'analogia, meno frequente, ma che io considero piuttosto convincente, concerne la sopravvalutazione della conoscenza e della consapevolezza di sé che esso implica. Come abbiamo visto nel capitolo 9, siamo molto meno in contatto con i nostri processi mentali di quanto ci piace pensare. Ricordiamo il fenomeno della dissociazione traslativa discusso in quel capitolo, o l'esperimento sulla cecità della scelta, nel quale i soggetti fornivano le ragioni del perché avessero trovato più attraente un certo volto, quando invece, senza saperlo, stavano parlando del volto che in realtà avevano scartato! Come possiamo usare la nostra comprensione del sé come modello su cui basare la comprensione degli altri se la nostra autoconsapevolezza è tanto limitata? Secondo la logica non potremmo, eppure è proprio quello che facciamo, dal momento che infinite volte lungo la giornata riusciamo a prevedere e a spiegare il comportamento degli altri: evidentemente a permetterci di farlo deve essere qualche altro processo, che non è il dedurre per inferenza né un'analogia astratta fra noi e gli altri. Un'ultima critica all'argomento dell'analogia, anche questa non molto diffusa ma decisamente convincente alla luce di ciò che sappiamo sui neuroni specchio, è la sottovalutazione della capacità di accedere alla mente degli altri. Come abbiamo visto, senza bisogno di virtù extrasensoriali, il nostro cervello è in grado di accedere alla mente altrui servendosi dei meccanismi neurali del rispecchiamento e della simulazione. «Simulazione»: è una parola che ho usato molte volte per descrivere ciò che succede nel cervello di chi osserva azioni eseguite da altri, ed è utilizzata spesso in campo neuroscientifico, ma non ne sono del tutto soddisfatto. Secondo me, la simulazione implica una certa quota di sforzo cosciente, quando invece gran parte dell'attività dei neuroni specchio molto probabilmente riflette una forma di comprensione della mente altrui che è automatica, basata sull'esperienza e preriflessiva. Il padre della fenomenologia, Edmund Husserl, descrisse il fenomeno (senza ovviamente riferirsi ai neuroni specchio...) in termini di «appaiamento». E un termine che mi piace, benché possa essere troppo forte in quanto implica che due individui diventino quasi un'unica entità. Ripensiamo ai dati di neuroimaging presentati nel capitolo 5 , che mostrano come la sensazione di essere l'agente delle proprie azioni si mantenga, «malgrado» i neuroni specchio, attraverso un incremento del feedback che si riceve dal proprio corpo. Ricordiamo anche, al capitolo 7, che le registrazioni di singole cellule effettuate in pazienti neurologici hanno rivelato una classe speciale di neuroni specchio, i neuroni specchio super, che incrementano il loro ritmo di attivazione per le azioni del sé, ma lo riducono per le azioni degli altri. Sono due meccanismi neurali che ci consentono di rappresentare internamente il sé e l'altro con una certa quota di interdipendenza, anche quando è in atto un rispecchiamento reciproco. Il
ruolo dei neuroni specchio nell'intersoggettività può allora essere
definito con maggior precisione come un «consentire l'interdipendenza»,
più che non un mero «appaiamento». Abbiamo visto che, attraverso i
neuroni specchio, possiamo capire le intenzioni degli altri, e quindi
prevedere, seppure in modo preriflessivo, il loro comportamento futuro.
L'interdipendenza fra sé e altro, che i neuroni specchio consentono,
modella le interazioni sociali tra gli individui, in cui l'incontro
concreto del sé con l'altro diventa il senso esistenziale condiviso che
li lega profondamente. 3. Un nuovo esistenzialismo Spesso
concludo i miei seminari sui neuroni specchio dicendo che le nostre
ricerche dovrebbero chiamarsi «neuroscienze esistenziali». Dico questo
perché i temi che sollevano collimano con quelli ricorrenti nella
fenomenologia esistenzialista. In genere colleghi e studenti tendono a
concordare sulla parte dell'equazione che riguarda la fenomenologia, ma
molto meno sulla parte esistenziale. Credo che l'esistenzialismo sia
stato associato a un'immagine negativa (perlomeno negli Stati Uniti),
quando era all'apice della sua popolarità, cioè negli anni quaranta e
cinquanta, ma che lo sia anche oggi, probabilmente perché se ne coglie
solo l'aspetto legato all'idea di angoscia e disperazione. Ma i temi
esistenziali a cui penso io in relazione alla ricerca sui neuroni
specchio non hanno nulla a che vedere con questo. Semmai, direi
piuttosto che sono di segno ottimista e potrebbero essere usati per
costruire una società più empatica, più attenta al prendersi cura degli
altri. Ovviamente, la fenomenologia ben si adatta alla ricerca sui neuroni specchio, dato che soltanto «tornando alle cose stesse» i miei amici di Parma avrebbero potuto scoprire queste cellule. Nemmeno quei pensatori che con più forza avevano sostenuto l'idea di una stretta vicinanza tra sé e altro erano mai giunti a ipotizzare un fenomeno naturale come i neuroni specchio. E’ sintomatico, peraltro, che gli unici scienziati ad aver avuto, prima della sua scoperta, una vaga intuizione dell'esistenza di un sistema neurale di rispecchiamento non sono fra quelli che teorizzano o passivamente osservano, ma fra quelli che costruiscono oggetti. Maja Mataric del laboratorio di robotica della USC (University of Southern California), mi disse che, quando era alle prese con la costruzione di robot che potessero apprendere dall'esperienza e imitare, aveva pensato a qualcosa di simile ai neuroni specchio. Anche altri roboticisti avevano coltivato «fantasie» ingegneristiche di questo genere, che ora sappiamo quanto colpissero nel segno. D'altro canto, l'esistenzialismo ci invita a cogliere il senso in questo mondo, il mondo della nostra esperienza, piuttosto che cercarlo su piani metafisici all'infuori di noi stessi. I neuroni specchio sono le cellule del cervello che conferiscono alla nostra esperienza, fatta soprattutto di interazioni con altre persone, un significato profondo. E’ questa la ragione per cui chiamo «neuroscienze esistenziali» la ricerca sui neuroni specchio. Si tratta di una definizione che potrà forse suonare come un ossimoro, dato che tradizionalmente la dicotomia tra la filosofia analitica e quella continentale (che comprende la fenomenologia e l'esistenzialismo) assegna il pensiero scientifico, iper-razionale e imparziale alla scuola analitica e la «cultura» poetica, letteraria e più genericamente artistica alla scuola continentale ed esistenzialista. Ma questa è proprio la lezione che a questo punto dovremmo avere imparato dai neuroni specchio: guardare con sospetto alle dicotomie troppo rigide (ricordate quella tra percezione e azione?). Gli esponenti
dell'esistenzialismo hanno costantemente ribadito che a meritare di
essere conosciuta e compresa è la nostra esistenza, la condizione
umana, e che l'impegno e il coinvolgimento sono preferibili alla presa
di distanza. I neuroni specchio sono cellule cerebrali che sembrano
essere specializzate nel comprendere la nostra condizione esistenziale
e il nostro essere in relazione con gli altri. Dimostrano che non siamo
strutturati come esseri soli, bensì abbiamo una base biologica,
modellata attraverso l'evoluzione, che ci conduce a una profonda
connessione reciproca con i nostri simili. La nostra neurobiologia (i
neuroni specchio, nella fattispecie) ci vincola agli altri. I neuroni
specchio sono la prova del modo più profondo che possiamo mettere in
atto di interagire con gli altri e di capirli: dimostrano che
l'evoluzione ci ha predisposti all'empatia, e dovrebbe essere questa
l'idea guida sulla base della quale modellare la società in cui viviamo
allo scopo di renderla migliore. 4. Neuroscienze e società Nell'incontro con l'altro, condividiamo emozioni e intenzioni. Siamo interconnessi in maniera profonda, a un livello biologico e pre-riflessivo. Ora lo sappiamo, e questo fatto mi sembra un punto di partenza fondamentale per il comportamento sociale che è stato ampiamente trascurato da una tradizione analitica volta a enfatizzare il comportamento riflessivo e le differenze tra gli individui. Allo stesso tempo, però, abbiamo di fronte a noi un altro fatto: un mondo atroce, nel vero senso della parola, un mondo che ci presenta tutti i giorni delle atrocità, e questo malgrado una neurobiologia predisposta all'empatia e attrezzata per rispecchiare e per condividere emozioni e intenzioni. Perché? Credo che questo sia dovuto principalmente a tre fattori. In primo luogo, nel caso della violenza imitativa abbiamo visto come gli stessi meccanismi biologici che producono l'empatia possano dare luogo, in determinate circostanze e contesti, a un comportamento che sta all'opposto dell'empatia. Al momento si tratta soprattutto di un'ipotesi, ma è un'ipotesi molto fondata. Se venisse confermata, questo dato di fatto neuroscientifico dovrebbe essere tenuto in conto da chi detiene il potere legislativo. Tuttavia dubito che lo sarà, per due ragioni. La prima è che la nostra società è lungi dall'essere pronta a impiegare i dati derivanti dalla ricerca scientifica per guidare scelte con ripercussioni sociali, tanto più in casi come quello della violenza imitativa, che vanno a inserirsi in una complessa relazione fra interessi economici e libertà di parola. Si tratta di una questione complicata in cui non esistono risposte facili, però non credo sia di alcun aiuto confinare nella torre d'avorio la scienza in generale, e le neuroscienze in particolare: nelle neuroscienze le scoperte vengono di solito applicate allo sviluppo dei trattamenti farmacologici per le malattie neurologiche, raramente per giovare al benessere della società nel suo insieme. Mi piacerebbe quanto meno vedere nascere un dibattito incentrato sull'idea che le scoperte neuroscientifiche possano e debbano informare le scelte sociali. Attualmente non vedo in atto molte riflessioni di questo genere, e sono convinto che ce ne sarebbe un gran bisogno. La seconda ragione che spiega questa resistenza verso una possibile influenza delle neuroscienze sulla società è associata alla nostra concezione di libero arbitrio, ovviamente connessa alla questione della violenza imitativa. La ricerca sui neuroni specchio implica che la nostra socialità, forse la più alta conquista degli esseri umani, sia anche un fattore limitante della nostra autonomia di singoli individui. Si tratta di una revisione importante di credenze consolidate da lunga data. Tradizionalmente, il determinismo biologico del comportamento individuale è contrastato dalla visione di un soggetto umano capace di innalzarsi al di sopra della propria struttura biologica per definire se stesso attraverso le proprie idee e i propri codici sociali. Tuttavia, la ricerca sui neuroni specchio suggerisce che i nostri codici sociali siano in ampia misura dettati dalla nostra biologia. Che cosa dovremmo fare di queste scoperte acquisite da poco? Negarle perché accettarle è difficile? Oppure usarle per rendere la nostra società migliore? Ovviamente, propendo per quest'ultima opzione. Il secondo fattore che ha ridotto l'impatto benefico della nostra fondamentale spinta neurobiologica verso la comprensione degli altri e l'empatia è il «livello» a cui tale spinta agisce. Teniamo a mente che i neuroni specchio sono neuroni premotori, e quindi cellule non implicate nel comportamento riflessivo. In effetti, certi comportamenti di rispecchiamento come l'effetto camaleonte appaiono impliciti, automatici e preriflessivi, quando invece la società è ovviamente costituita sulla base di un discorso esplicito e riflessivo. I processi mentali impliciti ed espliciti raramente interagiscono, anzi, possono persino essere dissociati. Però, con la scoperta neuroscientifica dei neuroni specchio, i meccanismi neurobiologici preriflessivi del rispecchiamento si sono palesati al livello riflessivo con il quale comprendiamo gli altri. Spero ovviamente che questo libro acceleri questo processo. La gente sembra capire in modo intuitivo come agiscono i meccanismi neurali del rispecchiamento. Quando racconto di queste ricerche, di solito chi mi ascolta ne coglie immediatamente il senso; nella mia esperienza, almeno, è così. Chi mi ascolta sembra che possa finalmente vedere espresso in maniera articolata ciò che già «sapeva» a un livello preriflessivo. In effetti, l'uso nel linguaggio quotidiano del verbo «commuoversi» è già rivelatore di questo livello preriflessivo di comprensione delle radici dell'empatia. Si dice che ci si commuove per la tristezza guardando un film che racconta una storia di infelicità o dolore, che ci si commuove per la gioia quando il proprio figlio fa goal e corre felice intorno al campo. Non a caso, la parola italiana deriva dal latino «muoversi con», perché in un certo senso presuppone davvero un movimento verso l'altro. C'è qualcosa di simile a un contatto fisico quando nella nostra mente riproduciamo dei movimenti mentre guardiamo qualcun altro compierli. La gente sembra sapere a livello intuitivo che il «commuoversi» costituisce la base dell'empatia e quindi del senso morale. La mia speranza è che una comprensione a livello più esplicito della nostra natura empatica possa prima o poi diventare un elemento costitutivo del discorso riflessivo che modella la nostra società. Il terzo fattore che inibisce quello che dovrebbe essere l'impatto positivo del meccanismo di rispecchiamento è connesso ai potenti effetti prodotti sui piano locale dal rispecchiamento e dall'imitazione, nel dare forma a una varietà di culture umane che spesso non sono interconnesse l'una con l'altra e finiscono perciò con l'entrare in conflitto fra loro, come non di rado abbiamo oggi sotto gli occhi un po' in tutto il mondo. Nella scuola della fenomenologia esistenzialista, si pone forte enfasi sull'imitazione delle tradizioni locali quale elemento molto influente nel plasmare l'individuo. Siamo eredi di tradizioni comuni, di questo nessuno potrebbe dubitare. Tuttavia, i meccanismi neurobiologici del rispecchiamento che consentono questa assimilazione delle tradizioni locali potrebbero anche svelare altre culture, farle conoscere, ammesso che si tratti di un incontro culturale possibile: invece, ciò che vediamo accadere di solito è esattamente l'opposto. Di fatto, l'incontro fra culture diverse è reso impossibile dall'influenza di sistemi di credenza di massa, religiosi e politici, che immancabilmente negano le fondamenta biologiche che ci uniscono. Credo che siamo giunti a un punto in cui le scoperte derivanti dalle neuroscienze possono influenzare e cambiare in maniera significativa la società in cui viviamo e la nostra comprensione di noi stessi. E’ tempo di prendere in seria considerazione questa possibilità. La nostra conoscenza dei potenti meccanismi neurobiologici che sono alla base della socialità umana costituisce una risorsa inestimabile, che può esserci d'aiuto nel decidere in che modo ridurre i comportamenti violenti, far crescere l'empatia e aprirci alle altre culture senza per questo dimenticare la nostra. Ci siamo evoluti per stabilire relazioni profonde con altri esseri umani: la nostra consapevolezza di questo fatto può, e dovrebbe, avvicinarci sempre di più gli uni agli altri." (pp. 222-232) Nella retrocopertina del libro è riportata la frase ormai famosa del neuroscienziato Vilayanur S Ramachandran. "I neuroni specchio sono per le neuroscienze ciò che il DNA è stato per la biologia.". Se le ricerche confermeranno i dati acquisiti sinora e li corroboreranno, si potrà dire di più: la scoperta dei neuroni specchio rappresenta uno dei fondamenti più importanti per la costruzione di un modello panantropologico. Al di là del suo valore assoluto nel sancire la natura sociale ed empatica dell’uomo, essa, infatti, conferma l’esistenza dei presupposti biologici di un bisogno di appartenenza e di un bisogno di individuazione. La motivazione imitativa che discende dall’attività dei neuroni specchio, incessante dall’inizio alla fine della vita, consente anche di capire la tendenza delle persone che appartengono ad un gruppo culturale a conformarsi ad un codice comune di valori e ad agire comportamenti conformistici. Tale motivazione, che tende ad aggregare il gruppo e ad assicurarne il funzionamento sociale e la riproduzione, sembra più potente del bisogno di individuazione. E’ ancora presto a mio avviso per estendere la scoperta agli ambiti della neuroetica e della neuropolitica. Soprattutto occorrerà scongiurare la possibilità che l’entusiasmo dei neuroscienziati finisca con il cadere nella trappola del riduzionismo neurobiologico, vale a dire in una nuova versione della sociobiologia. Il problema più inquietante che discende dalla scoperta dei neuroni specchio è quello che Iacoboni si pone ad un certo punto: come comprendere lo stato di cose esistente nel mondo, definito giustamente "atroce" sulla base del fatto che la natura umana è predisposta all'empatia e attrezzata per rispecchiare e per condividere emozioni e intenzioni? Penso che la risposta a questo quesito non potrà mai essere neurobiologica. Occorrerà ancora molto lavoro per integrare la scoperta dei neuroni specchio in un modello panantropologico.
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